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una commedia con 3 accenti drammatici
di Michele Cosentini
con Sveva Tedeschi, Luca Ferrini, Alberto Melone, Ashai Lombardo Arop, Yonas Aregay, Paolo Roca Rey
con il patrocinio di  Ambasciata dell’Iran, Ambasciata dell’Afghanistan, Ambasciata della Costa D’Avorio, Ambasciata della Moldavia, Nazione Rom
e con il patrocinio di Regione Lazio e Comune di Roma per il progetto Integr-Azione
 

Sinossi

Il razzismo più pericoloso è quello strisciante, quello nascosto tra le pieghe di ognuno di noi.
Quello che neghiamo davanti agli altri, e talora davanti a noi stessi. Quello che si nasconde dietro i mille “io non sono razzista, ma…” che precedono sempre più spesso le frasi che sentiamo quotidianamente pronunciare. È un razzismo che nasce da paure ataviche e paure indotte da professionisti del mestiere.
È questo tipo di razzismo, che vogliamo provare a raccontare, con lo spirito della commedia e del paradosso. E lo facciamo immaginando che lo Stato preveda, in nome di una non meglio precisata “emergenza abitativa”, che coloro che abbiano un appartamento superiore a una certa metratura siano obbligati ad ospitare un certo numero di immigrati: si tratta del cosiddetto “decreto dell’accoglienza”.

La cosa coglie impreparati Maria e Riccardo, agiata coppia borghese con una casa di oltre cento metri quadrati, da due mesi in ristrutturazione, e che si vede assegnati una sudanese e un senegalese (Haya e Hazuz). Maria, donna di sinistra, da sempre impegnata in lotte contro la discriminazione razziale e a favore dell’integrazione, nel momento in cui è costretta a mettere in pratica i propri principi, perde ogni pudore e fa di tutto per eludere la legge: corrompe una funzionaria del Comune, paga il suo operaio moldavo per essere ospitato da lei (in modo da accogliere una persona conosciuta e che le faccia dei lavoretti inclusi nel prezzo), costringe i suoi “accolti” a dormire nel corridoio o nella cabina armadio per non rovinare le stanze appena imbiancate, distrugge mezza casa per far abbassare i coefficienti comunali e poter ospitare qualche persona in meno, fino a pagare una tangente per far trasferire la sudanese a Pisa, dopo aver scoperto che suo figlio Simone si è innamorato di lei. Riccardo, che da sempre ha avuto idee politiche opposte a quelle di Maria, è quasi imbarazzato da come la moglie sia diventata intollerante, ma questo non lo porta a rivedere le sue posizioni, che restano profondamente razziste. Anche se, nel momento in cui i tre immigrati cominciano a essere stufi delle continue dimostrazioni di razzismo di Riccardo e Maria e gliele rinfacciano, i due coniugi continuano a negare orgogliosamente la loro miseria morale. Il gioco di equivoci e di intrecci comici prosegue in un crescendo surreale fino al parossismo del finale a sorpresa.

La particolare struttura di “Come se foste a casa vostra” fa sì che nell’impianto tradizionale della commedia si innervino elementi volutamente dissonanti, distanti dai canoni classici del comico, che analizzano le tematiche del razzismo e dell’integrazione sotto tutt’altra luce e angolazione, sulla base di testimonianze e di recitazione su musica. Sono piccoli iati che rendono lo spettacolo un esperimento che solo fino a un certo punto è inquadrabile in un genere unico. Forse perché non esistono i generi. O forse perché una delle più incredibili tragedie di quest’alba di secolo -il razzismo, che nessuno avrebbe pensato, dopo il secolo breve, di vedere spuntare nuovamente così presto- non merita un genere unico.